Harvard gazette, un tuffo nel passato con la coloratissima Biblioteca dei pigmenti naturali di Harvard Cinabro: rosso carminio o vermiglio tratto dal solfuro di mercurio. Rosso di Kermes: estratto dalle uova dell'insetto Coccus ilicis, che per la deposizione privilegia l'albero di Kermes. Veniva usato per la pittura di miniature e come acquerello, o come lacca in combinazione con l'allume. Il verde di Parigi, acetato arsenito di rame, così chiamato perché nell'Ottocento era usato per derattizzare le fogne di Parigi. La sostanza è infatti molto tossica, per la presenza di arsenico. Il pigmento ha prodotto lo sfondo vivace che si trova nell'Autoritratto Dedicato a Paul Gauguin di Vincent van Gogh. Molto economico da produrre, fu usato come pigmento per le vernici domestiche tra la fine dell'Ottocento e nei primi anni del Novecento. Immagini tratte dalla Harvard gazette
“C’era una volta un contadino che piantò un seme nel suo orto. Il seme germogliò e si trasformò in una piantina, che produsse molte belle zucche.” In Piccole Donne capita spesso di incontrare descrizioni di pranzi e colazioni, di momenti intimi vissuti in cucina, accanto al fuoco, con la buona Hannah che prepara semplici dolci fatti in casa o la volenterosa Jo impegnata in qualche disastroso esperimento culinario. Le essenziali sfoglie di Hannah riscaldano le rigide mattinate di Meg e Jo, mentre queste si recano al lavoro, infreddolite e infelici. La colazione di Natale, con i panini al latte, la panna e i biscotti caldi, viene offerta ai poveri Hummel e si trasforma in un estemporaneo banchetto natalizio; al suo primo invito in casa del ragazzo, Jo offre a Laurie la compagnia dei gattini di Beth e un fresco budino di panna, cucinato da Meg e decorato da Amy… inoltre le (misteriose) limette in salamoia, che costeranno a Amy un orribile quarto d’ora; le limonate estive, le gelatine, per terminare con il sontuoso e squisito tacchino ripieno del pranzo di Natale, che corona il felice esito delle impegnative vicende di casa March, con la sospirata riunione di tutti i membri della famiglia e dei loro affettuosi amici. “C’era una volta una zucca” è l’esordio di Beth come scrittrice e come cuoca. La timida bambina partecipa alla redazione del giornale del Circolo Pickwick, il club segreto fondato dalle quattro sorelle. La Cartella Pickwick contiene poesie, racconti brevi, giochi linguistici e notizie dal micromondo dei March. Tutte vi partecipano come possono: Amy con i suoi scritti sgrammaticati, Jo con i primi esperimenti letterari e Beth riportando le ricette di cucina legate alla sua placida e laboriosa vita domestica. Volendo ricostruire un ricettario attendibile, rispetto ai cibi descritti nel romanzo, ho consultato alcune guide di economia domestica americane dell’ottocento, una delle quali è citata direttamente da Louisa Alcott. Ne è risultata una discreta rassegna, che riguarda non solo la cucina vera e propria ma anche la produzione di bevande, liquori e semplici cosmetici naturali. È così che vorrei portarvi a toccare con mano e ad assaporare - con questo e altri post che seguiranno - il mondo di Piccole Donne, incominciando però con la semplice storia della zucca e con la ricetta descritta dalla stessa Beth, nella versione originale del testo: “Quello stesso giorno, una bambina dal visetto tondo e il naso un po’ schiacciato, che indossava un cappello marrone e un vestito azzurro, acquistò la zucca per la mamma. A casa, la tagliò e la fece bollire in un pentolone, schiacciò una parte della polpa cotta, la mescolò con sale e burro e la tenne per cena. Aggiunse poi un po’ di latte a quella che rimaneva, poi due uova, quattro bei cucchiai di zucchero, della noce moscata e qualche biscotto. Poi mise tutto in una teglia profonda e la tenne in forno, finché non si formò una bella crosticina scura. Il giorno dopo, il dolce fu mangiato da una famiglia di nome March.” L'ambra è la materia prima per eccellenza della profumeria, antica come solo le cose naturali sanno essere. Il suo aroma è caratterizzato da molteplici sfaccettature, che vanno dai caldi toni mielati agli sfondi legnosi, in un insieme corposo e persistente che non manca di evocare note più talcate, misteriose e molto evocative. Un profumo che sa di lontano e di profondo, ottima nota di fondo per catturare e rendere più persistente l’evanescenza degli accordi fioriti o agrumati. L’ambra naturale è una resina cristallizzata, che è data dai residui fossilizzati delle sostanze prodotte da alberi ad alto fusto, ricchi di composti, volatili e non, dei terpeni naturali. In profumeria naturale ci si riferisce però all’ambra come ad un accordo bene identificato, dato da un insieme di essenze che maturando sono in grado di ricreare l’aroma corposo, pieno e profondo della resina. La pratica sull’accordo ambrato è a volte molto elastica e creativa, e si allarga a sperimentazioni su sostanze che siano in grado di mantenere le caratteristiche di fondo delle sue note (l’Ambre di Maroma, ad esempio, è “costruita” sui toni speziati dei chiodi di garofano associati al vetiver e al legno di sandalo); tuttavia, la convenzione di fondo sull’accordo ambrato è unica, ed è data dalla miscelazione degli aromi di labdano, vaniglia e benzoino. Vi propongo allora la ricetta tratta dal libro Essenze e alchimia, scritto dalla meravigliosa “naso” della profumeria botanica Mandy Aftel. Una versione di base con una quantità ridotta di ingredienti, utile per una prima sperimentazione: in una bottiglietta di vetro scuro versare 60 gocce di benzoino 15 gocce di labdanum 3 gocce di oleoresina di vaniglia Si può scegliere se diluire il tutto in 20 ml di olio (preferibilmente di jojoba o di riso) o di alcool buongusto, e in questo caso si avrà una soluzione già pronta da aggiungere ad altre miscele di profumi oleosi o alcolici. Se invece si vuole mantenere l’intensità dell’olio essenziale e si vuole usare il composto puro, da aggiungere in un secondo tempo ad accordi più complessi, si può decidere di lasciarlo così. Un consiglio che vorrei dare, soprattutto quando si tratta di primi esperimenti nel campo della profumeria botanica, e in genere per tutto quello che riguarda la manipolazione degli oli essenziali, è quello di procedere comunque ad una diluizione, anche minima. Gli oli essenziali e le assolute sono sostanze vive ma molto concentrate, sono comunque il frutto di un’elaborazione umana, che ha mantenuto quasi intatti i principi della pianta ma che ha alterato, condensandola, la profumazione che di questa si può percepire in natura. L’aroma dell’olio essenziale ha bisogno di respirare e di ritrovare la sua giusta espansione, perché i suoi effetti sul nostro sistema nervoso non siano troppo intensi e perché sia possibile percepirlo in tutte le sue molteplici sfaccettature. La diluizione che io prediligo è quella in olio, perché permette di percepire subito le caratteristiche dell’essenza, senza che questa venga disturbata dall’odore dell’alcol, e nel tempo permette di creare prodotti oleosi o solidi più adatti alla profumeria botanica. Ma qui siamo davvero sul piano delle preferenze personali. Il profumo alcolico d’altra parte è molto più facile da creare e da gestire nel tempo, perché non presenta problemi di conservazione e ha una maggiore capacità diluente rispetto all’olio. In ogni caso anche le miscelazioni alcoliche permettono di esaltare la sintesi aromatica che si verrà a creare man mano che il profumo maturerà, annullando completamente ogni residuo dell’odore dell’alcol. Quando sarà matura, la nostra miscela? La tecnica dice di aspettare qualche giorno, una settimana o due, perché le sostanze collaborino tra loro a costituire l’unicum dell’essenza ambrata. La mia pratica personale invece consiglia di dare il giusto spazio alla pazienza, perché l’ambra non è qualcosa che appare all’improvviso, e come certi buoni vini migliora con il passare del tempo, regalando sempre nuove emozioni. A proposito di buon vino: provate ad aggiungere alla preparazione qualche grammo di polvere di radice di iris, proprio come facevano i vinai antichi. Addolcirà la miscela con il suo gentile retrogusto terroso, erboso e di violetta, agendo anche come ottimo fissativo. Sarà solo necessario filtare il tutto, una volta che avrà offerto il suo generoso contributo. Ma della magia dell'iris avremo modo di parlare ancora. "Il suo cuore era un castello purpureo. Giaceva in un deserto di pietra, nascosto da dune, circondato da un'oasi di fango e dietro sette mura di pietra. Si poteva raggiungere soltanto in volo. Possedeva mille stanze e mille cantine e mille eleganti salotti, uno dei quali era provvisto di un semplice divano, sul quale Grenouille, che adesso non era più il grande Grenouille, bensì il Grenouille del tutto privato o semplicemente il caro Jean Baptiste, soleva riposare delle fatiche del giorno. Ma nelle stanze del castello c'erano scaffali da terra fino al soffitto, e là si trovavano tutti gli odori che Grenouille aveva raccolto nel corso della sua vita, molti milioni. Quando erano giunti a maturazione, venivano travasati in bottiglie collocate poi in corridoi freschi e umidi lunghi chilometri, ordinati secondo l'annata, e la provenienza, e ce n'erano tante, che non bastava una vita per gustarle tutte. E quando il caro Jean Baptiste, finalmente rientrato nel suo chez soi, si era steso sul suo semplice divano domestico nel suo salotto purpureo - aveva infine tolto gli stivali, per così dire - batteva le mani e chiamava i suoi servi, che erano invisibili, impalpabili, impercettibili e inodori, cioè servi del tutto immaginari, e ordinava loro di recarsi nelle stanze e di prendere questo o quel volume dalla grande biblioteca degli odori" L'alchimista è il prototipo dello scienziato, un ricercatore concentrato sullo studio delle qualità della materia e delle sue possibili trasformazioni, sebbene usi criteri e tecniche che sono completamente diversi da quelli legati alla scienza moderna. Le prime informazioni sull'alchimia risalgono al III secolo a. C., ma sappiamo che in essa confluì il patrimonio dei saperi legati alla civiltà egizia e successivamente a quella greco alessandrina. Fino al 1100 d. C. la prassi alchemica fu prevalentemente legata alla cultura islamica, e riguardava soprattutto le tecniche di estrazione delle essenze floreali e la lavorazione dei metalli. Dopo le crociate l'occidente si impadronì delle sofisticate tecniche elaborate in oriente: Alberto Magno fu il primo alchimista occidentale, mentre Francesco Bacone approfondì gli aspetti legati all'inserimento della matematica nello studio della materia, già molto presenti nella cultura araba. Lo scienziato dell'antichità non è separato dal filosofo e, per alcuni aspetti, dall'iniziatore: l'approccio antico al sapere è totalizzante, e non conosce ancora le distinzioni e le specializzazioni del nostro mondo. Questo presupposto di fondo contribuisce a fare dell'alchimia una prassi misterica, una forma di iniziazione che comprende aspetti magici ma anche tentativi di elaborazione che per molti aspetti anticipano la scienza moderna, soprattutto per quanto riguarda le scoperte pratiche e gli esperimenti compiuti sulle materie prime naturali. A questo occorre aggiungere il fatto che la cultura medievale è intrisa di aristotelismo e della sua visione estremamente finalistica, che considera intrinsecamente collegati la natura dei materiali e le loro possibilità di trasformazione. Il mercurio si comporterà in un certo modo perché è nella sua natura essere così, un materiale seguirà uno sviluppo predefinito perché la sua essenza è già, in potenza, destinata a una forma precisa. Questa visione finalistica permea di sè tutta la cultura dell'epoca, non solo la scienza dei materiali e della natura: anche l'essere umano è sottomesso a tale dinamica, a questa necessità di un'evoluzione già stabilita che lo porterà ad essere immagine del divino. Gli alchimisti sono apparentemente concentrati sui misteri della materia e completamente coinvolti nella manipolazione delle sostanze, secondo tecniche che diventano sempre più sofisticate. L' Opus, il procedimento alchemico, presuppone il totale oblio di sé e la completa "estroversione" verso il tangibile e verso ciò che concretamente avviene nei materiali quando vengono elaborati o mescolati tra di loro. Lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung ha tuttavia offerto una nuova interpretazione dei meccanismi di base nella prassi alchemica, con considerazioni molto interessanti circa la natura stessa dell'uomo alchimista e i processi di trasformazione in cui incorre la sua mente, mentre egli è all'opera; una lettura molto interessante che senz'altro sarà oggetto di un prossimo approfondimento. Tutta l'attenzione di questi precursori della scienza è rivolta ad uno scopo principale, che è quello della ricerca della Pietra Filosofale, il Lapis, la sostanza che sarà in grado di trasformare in oro puro tutti i metalli. Anche la loro pratica è quindi estremamente finalizzata: essi non sono aperti al caso, alle informazioni divergenti che man mano possano emergere dall'analisi delle sostanze, ma sono prevalentemente concentrati sulla manipolazione della materia con uno scopo ben preciso, un fine ultimo definito a priori. Per essi un metallo o un'essenza non sono ancora un'insieme di molecole ma sostanze dotate di determinate qualità immediatamente identificabili. Il loro rapporto con la natura e con la materia, il loro atteggiamento mentale è simile a quello che ancora oggi noi possiamo sperimentare quando, a contatto con una sostanza, non ci interessiamo molto degli aspetti strutturali che la compongo ma piuttosto delle qualità globali che la caratterizzano: il sapore, l'odore, la consistenza, il colore, gli effetti direttamente percepibili dai nostri sensi. La storia e il nostro senso di modernità ci dicono che nessuno di loro riuscì mai a raggiungere la meta ideale e sostanziale del Lapis, ma l'aspetto interessante consiste, come sempre, nel tragitto, più che nell'arrivare, e questo lungo percorso ha permesso, nell'arco dei secoli, di pervenire ad una raccolta di informazioni, di prassi e di metodologie affascinanti e senz'altro utilissime per il successivo sviluppo della scienza moderna.. |